Testimonianze storiche e committenza privata in alta Val Graveglia nel secolo XVIII.
Un’edicola mariana sul ponte di Nascio
di Agnese Avena
A sinistra: Pasquale Bocciardo, “Madonna col Bambino”, secolo XVIII
In alto: Nascio, il ponte sul Rio Novelli.
Nascio è un piccolo borgo montano in alta Val Graveglia, nell’entroterra appenninico del levante ligure, arroccato su un crinale a circa 400 metri sul livello del mare.
Il paese, molto suggestivo, ha origini storiche antiche: denominato «Naxo» in un documento del 1054, è documentato in epoca medievale come dominio dei Signori di Nascio e dei Da Passano – entrambi rami della potente casata dei Conti di Lavagna – e successivamente dei Malaspina. Sono riconducibili a tale periodo storico le strutture architettoniche riscontrabili nei criptoportici superstiti e in alcune caratteristiche case in pietra con coperture in ardesia. Il colle era dominato un tempo dall’antico castello che, costruito probabilmente nel secolo XI, si ergeva nei pressi dell’attuale chiesa parrocchiale, edificio religioso cinquecentesco dedicato alla Madonna Assunta e a San Michele arcangelo.
Il contesto paesaggistico in cui il borgo s’inserisce è di grande fascino: la folta vegetazione dell’area boschiva che circonda il paese lascia intravedere speroni di roccia rossastra ricca di diaspri e di manganese ed occulta parzialmente la profonda e ripida gola in cui s’insinua l’alveo del rio Novelli, un affluente del torrente Reppia, che la percorre con andamento sinuoso.
In questo particolare ambiente naturale viene ad inserirsi, nel secolo XVIII, lo scenografico ponte in pietra che ancora oggi scavalca il rivo e collega le due falde rocciose, accorciando e semplificando il percorso di un probabile precedente sentiero tracciato tra Nascio e i due antichi nuclei di Cassagna, piccolo agglomerato di case poco distante, e Statale, centro rurale più importante, per congiungersi più a monte, in Val Reppia, con altri percorsi presenti sul crinale di confine.
La costruzione della nuova struttura viene a sottolineare, pertanto, la funzione determinante che semplici sentieri e più importanti vie di transito, tracciate fin dai tempi antichi, svolgevano ancora nel corso del Settecento in questo comprensorio decentrato della Repubblica genovese, mettendo in comunicazione i paesi dell’entroterra tra loro, con l’importante centro di Genova, con le località dell’estremo levante e, oltre Appennino, con il parmense e la pianura padana.
Il ponte – alto ventotto metri e mezzo e lungo circa venti metri – è ad un’unica arcata a tutto sesto; il piano di pavimentazione è lastricato con pietre di fiume, materiale utilizzato anche per le cordonature dei due parapetti laterali. L’andamento non perfettamente rettilineo della struttura è assecondato dalle due rampe di bassi gradini che la percorrono digradando dolcemente verso il centro. Un’edicola mariana murata alla sponda rivolta verso Cassagna funge da fulcro visivo per chi osserva l’ardita costruzione da Nascio e al tempo stesso sembra proporre una sosta a chi si accinge ad attraversarla.
Un cippo marmoreo centinato, murato al parapetto, reca incisa un’interessante iscrizione - fortunatamente ancora leggibile nonostante le inevitabili abrasioni causate dalle ingiurie del tempo – fornendo precise indicazioni sull’epoca di costruzione e sulla committenza del ponte e, indirettamente, sul bellissimo gruppo scultoreo che lo sovrasta.
Il testo latino – «D.O.M – IOANNI MARIÆ FRANCISCO CAIETANO – ET MICHAELI ANGELO CAMBIASYS – PATRICYS GENVENSIBUS – QUÔD SANCTINI FRATRIS – PIETATE CLARISSIMI – SUPREMÆ VOLUNTATI OBSEQVENTES –MONTIBUS UTRINQVE PONTE CONTENCTIS – OPERE MUNIFICENTISSIMO – IN VIAS INTERFLUO TORRENTE – NAXY PARTES – PRÆSENTISSIMO INCOLARUM COMMODO – PERVIAS FECERUNT – NAXY GENS GRATI ANIMI PLENA – OPTIME MERENTIBUS – POSUERE – ANNO MDCCLXVI» (D.O.M.– .A Giovanni Maria, rancesco Gaetano e Michelangelo Cambiaso, Patrizi genovesi, ossequienti alle ultime volontà del fu fratello Santino, rinomatissimo per Pietas, congiunsero, con grandissimo vantaggio degli abitanti, le parti di Nascio, separate dal torrente che le divide – La popolazione di Nascio, colma di animo grato, dedicò agli eccelsi benefattori – Anno MDCCLXVI) – oltre ad evidenziare la data di costruzione della struttura, conclusa nel 1766 – indica i nomi dei facoltosi committenti genovesi che ne hanno proposto e finanziato il progetto.
I Cambiaso, patrizi genovesi giunti a Genova dalla Val Polcevera, erano stati ascritti al Libro d’Oro della Nobiltà nel 1731 ed avevano partecipato attivamente alla vita pubblica della Repubblica nel corso del secolo XVIII, svolgendo incarichi di grande prestigio come documentano l’elezione dogale di Giovanni Battista nel 1771 e di Michelangelo nel 1791. Zio paterno di quest’ultimo risulta essere il Michelangelo menzionato nella lapide di Nascio, il quale – congiuntamente ai fratelli Giovanni Maria (da cui discende l’attuale ramo “fiorito” della famiglia) e a Francesco Gaetano – adempie in tal modo ad una disposizione testamentaria di un altro fratello, Santino, morto senza figli. Questi aveva lasciato, infatti, eredi delle proprie sostanze i tre personaggi menzionati nell’iscrizione, insieme ad un nipote, Carlo Maria De Ferrari, figlio di una sorella.
Il legame della famiglia con il territorio dell’Alta Val Graveglia e con Nascio in particolare non doveva essere casuale se l’attenzione mostrata nei confronti della popolazione locale – evidenziata nel miglioramento della viabilità della zona – era stata accompagnata o forse preceduta dalla donazione alla comunità parrocchiale di due preziosi reliquiari ad urna seicenteschi, in legno dorato (TISCORNIA, 1936, p. 428), tuttora conservati tra i beni della chiesa. È interessante notare, inoltre, nel medesimo edificio religioso, lo stemma scolpito sulla vasca di un’acquasantiera a fusto cinquecentesca, oggi parzialmente abraso, forse identificabile con l’arma araldica della casata.
In alto: il borgo di Nascio in alta Val Graveglia
I tre esponenti della famiglia Cambiaso citati possono dunque essere considerati committenti anche del gruppo scultoreo che sovrasta la lapide.
Un’aggraziata Madonna a mezzo busto, effigiata seduta mentre trattiene ed abbraccia uno scalpitante Gesù Bambino, sembra staccarsi dalla lastra marmorea ovale del fondo. La postura delle due figure, il movimento pacato delle stesse, la resa della veste e del manto della Vergine, ricadenti in pieghe ampie e morbide, inducono a datare l’opera al terzo quarto del secolo XVIII e a ricercarne l’autore, finora ritenuto ignoto, tra gli artisti tardobarocchi operanti in ambito genovese.
Le caratteristiche stilistiche evidenziate, unitamente alla particolare trattazione dei volti, permettono di accostare il bassorilievo in esame ad opere documentate di Pasquale Bocciardo (1719-1791), noto ed apprezzato scultore genovese, già allievo di Domenico Caprile o, secondo Carlo Giuseppe Ratti (1769, II, p. 361), unico allievo del carrarese Giacomo Antonio Ponsonelli (Carrara 1654 – Genova 1735), del quale sarebbe diventato un valido collaboratore.
Le opere realizzate negli anni ’50 -’70 del secolo XVIII dal Bocciardo - Direttore della Scuola di Scultura presso l’Accademia Ligustica di Genova dal 1763 al 1788 – denotano ancora moduli compositivi barocchi e mostrano qualche affinità con la scultura decorativa di Filippo Parodi e di Giacomo Antonio Ponsonelli, orientandosi tuttavia verso stilemi compositivi più composti e classicheggianti, preludio all’arte neoclassica.
L’attribuzione della Madonna con Bambino di Nascio allo scultore genovese è giustificata da alcune caratteristiche stilistiche riscontrate anche in altri gruppi scultorei dell’artista quali la Madonna con Bambino, pala d’altare scolpitaa bassorilievo per il Retablo Mayor della Cattedrale di Cuenca, inviato in Spagna da Genova nel 1759, l’Immacolata del Conservatorio Fieschi, realizzata tra il 1764 ed il 1771 e la raffinata Immacolata che sovrasta il portale della chiesa genovese di San Filippo Neri, scolpita tra il 1766 ed il 1780.
Quest’ultima, sostenuta da una scenografica Gloria d’angeli ed affiancata da due Angeli in preghiera, è forse l’opera che maggiormente si avvicina al gruppo scultoreo della Val Graveglia. Il dolcissimo viso della Vergine dai tratti minuti, incorniciato dai capelli raccolti che fuoriescono dal velo morbidamente panneggiato del gruppo di Nascio, ritorna pressoché identico nella Madonna di San Filippo, mentre il volto di Gesù Bambino, dalle gote paffute e con fronte parzialmente coperta dai riccioli rigonfi della folta capigliatura, è molto simile a quella degli angioletti della Gloria della chiesa genovese.
A sinistra: Pasquale Bocciardo “Immacolata Concezione”, secolo XVIII. Genova, Chiesa di San Filippo Neri.
In questi anni Pasquale Bocciardo è già un artista maturo, famoso ed affermato. I Cambiaso, committenti colti ed aggiornati, si rivolgeranno a lui ancora negli anni successivi, come attestano due importanti lavori commissionatigli in occasione del dogato di Giovanni Battista Cambiaso, il ritratto a figura intera in veste cerimoniale per il Salone del Maggior Consiglio (realizzato nel 1772 e distrutto nel 1797) ed il busto oggi conservato nel Castello Reale di Varsavia.
Non desta stupore, dunque, che l’aristocratica famiglia genovese abbia commissionato all’artista anche l’opera che avrebbe qualificato il nuovo ponte costruito nel 1766 in Val Graveglia.
Sopra: il ponte sul Rio Novelli.
BIBLIOGRAFIA
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TISCORNIA L.B., Nel Bacino Imbrifero dell’Entella. Val di Graveglia. II, parte terza, Chiavari 1936 (ristampa Recco 1996)
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FALZONE P., Valli di Sestri Levante, Genova 1977
SPRETI V., Cambiaso, in Enciclopedia nobiliare italiana. II, Milano 1929
RINGRAZIAMENTI
Mons. Francesco Isetti, Ufficio Liturgico e di Arte Sacra, Curia vescovile di Chiavari; Angela Acordon, soprintendenza per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico della Liguria; Claudia Cambiaso; Paolo de Angelis Mastrolilli.
Val Graveglia (di Duilio Citi, Luglio 2017)
Sovente mi capita di ricordare – talvolta anche in sogno - quando nostro padre ci faceva assaporare la domenica pomeriggio in numerose gite fuori porta, le bellezze delle valli dell’entroterra chiavarese. Tra le tre Sturla, Fontanabuona e Graveglia, quest’ultima era privilegiata perché si raggiungevano, percorrendo il minor numero di chilometri, quote già molto alte. A lui piaceva andare in fondo e in profondità: il termine, il fondo della val Graveglia corrispondeva anche alla sua quota più alta. Ho in mente i nomi di Zerli, Statale, Botasi, Reppia, Arzeno ma soprattutto il Biscia e la sua discesa fino a Varese. Non ricordo affatto, invece, Romaggi, Verzi, Canevale –questo magari si, ma solo perché diede i natali a Chighizola veggente di Montallegro – Serra, Neirone, Lumarzo, posti frequentati da specialisti, studiosi o … buongustai. Qualche nome conservo della val di Sturla, con poca simpatia però, perché meta di noiosissime e lunghe sedute a tavola con parenti ed amici, come Borzonasca e Campori oppure Montemoggio e il Bocco in val Mogliana o la lontanissima Cabanne nella val d’Aveto irraggiungibile in una mezza giornata e meta soltanto di villeggiature estive. Reppia invece si raggiungeva in poco più di mezz’ora. “Anemmu a faa u giu de Vaise?” “Andiamo a fare il giro di Varese?”diceva papà alla mamma dopo il pranzo della domenica. Allora si partiva tutti e cinque per San Salvatore, Settembrin, Graveglia, Conscenti, Frisolino, Arzeno, il Passo del Biscia, Codivara, Comuneglia e Varese. D’obbligo era il caffè al Ristorante della Posta, la visita al calzolaio Marenco che faceva ancora le scarpe a mano e che aveva come attrazione fuori dal negozio un enorme scarpone, e dall’antiquario De Paoli che aveva il magazzino nei pressi del castello. Come era anche d’obbligo scegliere il viaggio di ritorno che passasse da Velva santuario –non c’era ancora il traforo- con somma insofferenza dei miei fratelli per le curve interminabili verso Sestri Levante. A Cassagna ho cominciato ad andarci con l mia futura moglie agli inizi degli anni settanta. Terminato il servizio militare ho organizzato una gita con amici in quel bel posto, dove ho esordito dicendo che quel giorno si stava inaugurando una nuova forma di turismo culturale, di cui io prestavo la guida. Ricordo le persone grazie ad una fotografia che conservo, Domenica, Oriana, Simonetta, Luciano (foto1)
L’approccio di allora all’architettura dell’alta val Graveglia, sponda sinistra, era di tipo molto emotivo: belli i muri in pietra e bella la misura d’uomo che ritrovavi dappertutto.
Come dimenticare le lunghe ore trascorse a spaccare sassi alla ricerca dei cristalli verdi di epidoto all’inizio della strada di Zerli dalla parte di Pian di Fieno, anche la notte del 25 gennaio mio compleanno, fino alle 5,30 del mattino con torcia elettrica e bottiglia di grappa, con l’amico Tino durante la costruzione del porto di Lavagna, nella seconda metà degli anni settanta, quando abitavo a Cavi Borgo!
Qualche anno dopo, aiutato dal docente direttore della ricerca, lo sguardo cadde sulla continuità dello spazio o, se si vuole, ci si accorse che lo spazio era vissuto senza soluzione di continuità. Ricordo che si imprecava contro coloro che avevano innalzato cancelletti abusivi o anche ostacoli figurati che degradavano le spazialità originarie. Si cercò di trascrivere, sul foglio da disegno, le classificazioni dello spazio in aree pubbliche, aree comuni e aree private. Ci si auspicava di trovare un bravo cineasta che facesse delle riprese con delle comparse perché sarebbe stato il modo migliore per documentare la qualità spaziale dell’insediamento. Capitò alcuni anni dopo quando a chiedere la tesi fu un operatore di Canale5, che indirizzai subito in val Graveglia. Siamo al tempo di “Comunità di villaggio e architettura – L’esperienza storica del levante ligure” (Milano, Jaca Book 1985) che riportava sulla copertina una fotografia di una delle famose strade coperte di Cassagna. Dante lo regalò alla moglie, originaria di Cassagna quando risiedevano a Roma, perché le ricordava quella che lei chiamava ‘la porta delle pecore’ perché di un ovile, la stessa che compare nella fotografia di copertina Riporto quanto ebbi a scrivere in un’ampia didascalia a commento della planimetria di Cassagna con l’individuazione degli spazi di cui sopra:
“CASSAGNA è uno dei paesi meglio conservati di tutto l’entroterra del Tigullio, con una struttura planimetrica semplice, sviluppata lungo il percorso principale che si biforca per raggiungere la piccola piazza dove si eleva la cappella di S.Rocco. Le date incise, pur non essendo numerose, coprono un arco di tempo che supera i trecento anni. Un nucleo centrale simile, per la compattezza dell’impianto, a quello con numerose date riferite al XVII secolo di Perlezzi, riporta l’anno 1621 e quattro portali che presentano un sovraporta ad arco in conci di pietra a sesto acuto, anziché il consueto architrave monolitico.
Numerosi sono i percorsi coperti realizzati con strutture a botte o a crociera che rivestono spesso caratteri di spiccata monumentalità.
Ma l’eccezionalità di Cassagna sta nell’ armonia dei suoi spazi interni che, a partire dalla strada pubblica, gradualmente raggiungono una sempre maggiore riservatezza nel lambire i confini dei vicinati: di questi se ne contano sei, a valle del paese, formati da percorsi ortogonali alla pubblica via, i quali, dopo aver attraversato in galleria gruppi di abitazioni conducono alle zone agricole sottostanti.
E’ il periodo in cui ci si accorse, leggendo anche i testi dei ‘tipologi territoriali’ sulle vie di comunicazione ricorrenti tutte alla stessa quota, che oltre a Cassagna gli altri insediamenti dell’alta val Graveglia come Nascio, Statale, Botasi, Reppia e Arzeno avevano aspetti formali comuni -perché in comune avevano avuto gli stessi percorsi- con quelli dell’alta val di Vara immediatamente al di là dei crinali dei monti Porcile, Biscia e Chiappozzo, quali quelli compresi nei confini amministrativi del comune di Maissana: Santa Maria, Disconesi, Cembrano, Colli, Ossegna, Campore, Tavarone, ma anche Valletti e Bargone. E’ incredibile raccontare di come, qualche anno fa, essendo andato con un amico a verificare quanto appena detto, mentre beviamo un caffè nel bar Rita sentiamo uno che racconta di essere appena tornato da un funerale a Statale (!!!) Senza volere si conferma ancora oggi la tradizione dei rapporti oltre-crinale tra la val Graveglia e quella del Vara.
Rimanendo in quota fin dall’antichità più remota, i percorsi tra un abitato e l’altro sono sempre più vicini e vengono collocati alle quote delle risorgive. Come dissi una volta parlando ad un incontro organizzato dagli alpini, non si può stare sempre in alto, in montagna, perché è come se si rimanesse sulla superficie rischiando di diventare … superficiali; occorre scendere, non tanto a fondo valle, bensì ad esplorare e conoscere lo spessore culturale delle comunità e della gente che non sono solo storia e folclore, ma l’esito di situazioni reali ed attuali.
Come mai, ci siamo chiesti, la chiesa di Borzone, quella di Cichero , quella di Cogorno, come tante altre sono poste in una posizione centrale rispetto ai piccoli gruppi abitati cui sono di riferimento, e quelle di Cassagna, Statale , Nascio, Cembrano, Maissana, etc. etc. sono dentro ai paesi? Un giorno abbiamo incontrato i ragazzi - allora lo erano – del gruppo aggregato da Ivon Palazzolo, l’architetto svizzero appassionato di archeologia. Ci indicarono la posizione della chiesa dedicata a san Michele posizionata in località Crocetta punto della pedonale Cassagna / Statale, da poco liberata dalla vegetazione. Allora c’era una chiesa molto antica – san Michele era molto venerato in epoca longobarda al punto che venne raffigurato in una moneta fatta coniare dal re Liutprando - distante dall’abitato! Andai subito a fotografarla in compagnia di Maria Teresa: era il 10 ottobre 1980, c’era una luce favolosa, ambrata, feci anche quel panorama del paese che adesso è appeso nei locali dell’agriturismo”A Cà da nonna”. (Foto n° 2 , 3 e 4)
Da allora cominciammo ad imparare che spesso, anche senza volere, si diventa schematici; cominciammo ad imparare che la storia ha un comune inizio, ma se la realtà compare diversa non è per un’altra storia, ma perché la stessa ha avuto sviluppi differenti e diverse ramificazioni.
Grande perplessità mi suscitò la notizia dell’epoca di costruzione di quel fantastico anfiteatro di fasce terrazzate, rasentato dalla mulattiera Cassagna - Statale e fotografato per la prima volta assieme al professor Langè il 30 marzo 1979: Duilio Brignardello, che fu per me fonte profondissima di informazioni ma soprattutto amico, mancato a 89 anni nel luglio di tre anni fa, disse che secondo lui erano piuttosto recenti, non antecedenti al XIX secolo. Mi accorsi molto più tardi che la collocazione non faceva una grinza. A quel tempo mi piaceva che fosse tutto medievale!
Foto 5, 6 e 7 : anfiteatro terrazzato e panorama di Cassagna il 30 marzo 1979.
Foto 8,9 e 10 : Duilio Citi e Duilio Brignardello
Quando nel lontanissimo 1979, il 6 di marzo, il fotografo Cesare Ferrari, mia guida e istruttore, mi chiese di accompagnarlo a Cassagna, gli feci intendere che c’ero già stato e che preferivo accompagnarlo in una località che non conoscevo ancora; allora lui esclamò:”A Cassagna non ci si va mai abbastanza! Se vuol capire qualcosa della val Graveglia deve andare, andare e ritornare ancora a Cassagna!” Dopo tanti decenni devo ammettere che aveva ragione!
Ecco perché i paesi sulla sponda destra del Graveglia hanno un impianto territoriale così diverso da quelli che sorgono sulla sponda sinistra: per tutti quanti sono stati impiegati gli stessi ‘semi’ dai quali sono germogliate le stesse piante ma, ad un certo momento della crescita, in quelli della sponda sinistra sono stati praticati degli innesti che ne hanno cambiato la forma, pur lasciando inalterato il dna.
I piccoli villaggi che formano l’abitato di Zerli si radunano attorno alla chiesa dedicata a San Pietro, pur tenendosi a rispettosa distanza da essa e da l’uno dall’altro; terreno coltivato e fitta maglia di percorsi caratterizzano il territorio inframezzato tra di loro. Gli studiosi del territorio hanno chiamato un assetto territoriale di questa specie “pieve rurale” e dato che ciascun gruppo di case ha un nome, Costa, Gosita etc. che non corrisponde mai a Zerli, si affaccia un’altra denominazione quella di “costellazione”, perché le stelle del cielo hanno nomi diversi da quello unico che le contraddistingue.
Anche la quasi scomparsa chiesa dedicata a San Michele in località Crocetta sorgeva isolata attorniata da una cornice di piccoli villaggi che non esistono quasi più. Oggi capisco quanto mi raccontava Attilio (foto n°11), la prima persona di Cassagna a cui ho chiesto informazioni il 6 giugno 1979: diceva che quando si celebrava la messa alla Crocetta, la gente arrivava da tutte le parti e quelli provenienti da Bargone si attestavano sul crinale. Al momento dell’elevazione qualcuno faceva dei segnali o sventolava un fazzoletto in modo che tutti potessero partecipare alla funzione.
A quel tempo la chiesa di San Michele era una vera e propria pieve rurale costruita isolata dagli abitati ed in una posizione centrale rispetto ad essi.
In tempi gradualmente successivi vennero costruite dentro o al fianco degli impianti insediativi, le chiese di San Rocco a Cassagna, Santa Maria Assunta a Nascio, San Bartolomeo a Statale, Sant’Apollinare a Reppia, San Lorenzo ad Arzeno così come San Bartolomeo a Maissana, San Lorenzo a Campore, San Martino a Cembrano, San Michele ad Ossegna, Santa Maria Assunta a Santa Maria e San Bartolomeo a Tavarone. Come si osserva, c’è una corrispondenza di culti tra l’alta val Graveglia e i territori confinanti al aldilà del crinale: ben tre chiese dedicate a San Bartolomeo, due a Santa Maria Assunta, due a San Lorenzo e, se vogliamo considerare la scomparsa San Michele delle Crocetta, due anche quelle dedicate a questo santo. Effettivamente anche nel caso di Ossegna, per via della posizione centralizzata, l’insediamento religioso dedicato a San Michele potrebbe essere stato il primo a comparire.
L’uso dei materiali, legno e pietra, sono sempre gli stessi, ma le tecniche costruttive si rivelano, in questa zona, decisamente più evolute non per quanto riguarda soluzioni più ardite bensì per l’applicazione quasi maliziosa di espedienti produttivi prima inesistenti.
Come in tutta la vastissima zona corrispondente alla Maritima di Bobbio, i muri d’ambito di qualsiasi costruzione corrispondono ad una geniale soluzione, quella cioè di isolare gli ambienti interni dagli agenti esterni, temperatura ed umidità, attraverso l’edificazione non di una parete a muratura continua ma come se fossero due paramenti affiancati, uno esterno ed uno interno coesi tra loro da pietre poste nello spessore delle due murature affiancate.
E’ stato proprio Giovanni di Cassagna che ha spiegato per la prima volta tanti anni fa a me e a Marta, laureanda in ingegneria, non più tardi di dieci giorni fa, come costruivano questi muri doppi: cioè mettendosi in due operatori, uno all’interno e uno all’esterno, ognuno di loro ad edificare il suo muro appoggiato a quello del suo dirimpettaio. Due muri, perciò, assolutamente autonomi legati tra loro con un semplice espediente e cioè con un concio più lungo degli altri, posizionato orizzontale od obliquo, che doveva fungere da chiave o diatono e che rimaneva praticamente inindividuabile dall’esterno perché annegato nella muratura.
Ci siamo accorti subito della loro esistenza perché nelle prime zone studiate quali la val d’Aveto, la Fontanabuona e la val di Sturla, erano visibili perché presenti negli stipiti delle bucature – porte e finestre – e, nei casi più antichi, ancora più evidenti perché sporgenti dal filo del muro. Che poi sporgessero in certi casi anche dalla totalità della superficie parietale, ce li fecero notare coloro che seppero attribuire una funzione simbolica o di linguaggio e cioè il divieto di appoggiarsi con altri corpi edilizi, soprattutto quando nel progetto da quella parte era prevista la sistemazione definitiva di un percorso, una strada.
Lunghe ‘sedute’ durante i sopralluoghi con gli studenti –interlocutori indispensabili per testare le più ardite ipotesi – sono state necessarie per capire il motivo della loro sporgenza qualora si considerassero i diatoni presenti negli stipiti. Le risposte degli abitanti si sono rivelate imprecise e scorrette perché a chi diceva che vi si appoggiava la chiave, si ribatteva che molti sono talmente arrotondati che non potevano essere stati progettati come mensole e neppure le serrature metalliche con la chiave erano state previste nei progetti iniziali. Neanche puntelli per reggere tettoie a sbalzo a protezione dell’uscio, come quello che avevamo visto nei primi raid fotografici a Ertola in val d’Aveto che si è rivelato unico esempio fino ad oggi. Ricordo che in uno di questi ultimi anni facemmo prove e riprove utilizzando un portale senza serramento nella così detta Casa degli Archi a Prato Sopralacroce con un gruppo di studenti del corso tra cui emerse uno studente turco molto bravo il quale approvò la soluzione cui era arrivato il sottoscritto e cioè che la sporgenza era dovuta ad una scelta assolutamente estetica.
Si partì, come ebbi a ripetere a Marta dieci giorni fa a Nascio, da un prototipo – o da più di uno - realizzato nei cortili dell’abbazia di san Colombano a Bobbio dove il problema era quello di arrivare a delle soluzioni ottimali in breve tempo essendo le prime opere sul territorio della Maritima. L’elemento lapideo che richiedeva più lavoro nel caso venisse pareggiato con il filo della muratura era quel concio orizzontale lungo più dello spessore dei due paramenti interno ed esterno, il diatono per l’appunto; la pietra si presentava con la sua faccia esterna ‘di testa’ e quindi molto più laboriosa da rettificare qualora si volesse mettere in continuità con la superficie della soprastante e della sottostante. Sarebbe stata una inutile perdita di tempo, perciò si scelse di lasciarla solo sbozzata e si provò a metterla a filo, ma stonava con le adiacenti superfici lisce; meglio era se fatta sporgere che in caso di buona luce ne poteva scaturire un gradevole effetto chiaroscurale. Tutto questo nei primi edifici costruiti, quelli che a noi oggi risultano essere i più antichi, perché era necessario riprodurre abbastanza velocemente i prototipi, le prove e i modelli montati per la prima volta nei cortili del monastero di Bobbio. Siamo nei primi decenni della gestione longobarda del territorio, i bizantini scacciati dalle nostre zone si sono rifugiati a Genova; potrebbero riorganizzarsi in poco tempo e tornare a rioccupare le terre perdute. In particolar modo nella valle di Sopralacroce le frazioni presentano ancor oggi i segni evidenti di un assetto difensivo costituito da impianti planimetrici formati da vere e proprie cinte murarie che racchiudevano case e spazi ortivi; ne è un esempio eloquente Perlezzi. Velocità di esecuzione che ha lasciato dei segni che per noi sono stati preziosi riguardo all’attribuzione cronologica: quelli fatti in fretta non potevano essere che i primi visto che anche la sistemazione geografica corrisponde. A partire da Bobbio, su verso la val Trebbia, la bassa, la media e l’alta val d’Aveto, per scendere, poi, in val di Sturla e nella valle di Sopralacroce. In questa zona è evidente che hanno avuto luogo le prime realizzazioni, quelle senza finiture, senza perdite di tempo, senza impiego di ore lavorative non necessarie: senza diatoni, o conci di chiave, negli stipiti delle bucature, negli stipiti di quei portali attraverso quali “poteva passare anche un imperatore,” come ebbe ad esclamare più volte il grande fotografo Cesare Ferrari - con il quale andai il primo maggio 1980 per la prima volta ai Casoni del Chiappozzo - cui fece eco un noto critico d’arte romano quando vide la gigantografia di un portale di Chignero (Rapallo) che apriva una mostra al Meeting di Rimini 1981. (”Equilibrio ambientale e ricupero culturale dell’entroterra ligure”) Apro una parentesi per riferire che in quell’occasione riuscii a recuperare uno studio del geografo Emilio Scarin risalente al 1952 apparso in Annali di ricerche e studi di geografia dal titolo”L’insediamento stagionale in Liguria (le sedi dell’allevamento pastorale)”; i Casoni di Chiappozzo e dei Lavaggi sono descritti alla pagina 63 e le fotografie alla Tavola X.
I portali di Cassagna, Nascio, Statale essendo privi di diatono negli stipiti, hanno un concio nella parte mediana abbastanza sviluppato in superficie, che appare inserito nel paramento esterno e quindi ben visibile da fuori.
Per un lungo periodo trascorso, non conoscendo ancora le dinamiche costruttive ma solo la loro apparenza estetica, li chiamavo portali ‘a farfalla’perché quelle due grandi pietre laterali mi ricordavano le ali di una farfalla oppure delle grandi orecchie.
Foto 12, 13, 14 e 15 Esempi di portali ‘a farfalla’.
Perché più indietro ho scritto che questa è una applicazione quasi maliziosa di espedienti produttivi prima inesistenti? Perché si erano accorti cammin facendo, forse il solito capomastro geniale, e non più nei cortili di Bobbio, che anche se non vi erano i diatoni negli stipiti, la costruzione stava in piedi ugualmente; l’importante è che fossero presenti in tutta la muratura. Questo accorgimento poteva anche essere celato nei nuovi capitolati d’appalto presentando gli stessi costi che facevano lievitare il guadagno. La voce si propagò dappertutto e, da allora ogni portale veniva edificato senza diatoni negli stipiti, credo, dal IX secolo in avanti, finché si adottarono incorniciature di porte di quello stile e cioè finché si potevano reperire pietre abbastanza grosse per farlo.
Un giorno andai, avendo avuto il sospetto, a verificare a Cassagna e mi accostai ad un grosso portale ispezionabile perché inserito in rudere (foto n°16); mentre mi chiedevo come facesse a tenersi in piedi quella casa pensando fosse completamente priva di diatoni, appena girato l’angolo mi apparve un muro che sembrava un porcospino dai tanti diatoni sporgenti che aveva! (foto n° 17) Da quel giorno quella ispezione e quel giro diventò tappa obbligata per gli studenti del mio corso in sopralluogo a Cassagna.
Rispetto al portale ispezionato quel giorno, il muro irto di diatoni sporgenti comparve salendo sulla sinistra e poi girando a destra; erano entrambi parti della stessa casa!
Ma se, per caso, improvvisamente si scoprisse in una totalità di portali senza diatono negli stipiti, un portale che ha uno stipite senza diatono come tutti gli altri, ma quell’altro non solo ha il diatono ma è anche sporgente sia all’esterno che all’interno e perciò, in base alla teoria detta prima, apparterrebbe alla fase costruttiva più antica, come ce lo potremmo spiegare?
Le immagini 18 e 19 mostrano che solo lo stipite alla sinistra di chi esce ha il diatono che sporge sia all’esterno che all’interno.
La prima ipotesi da fare è quella di ritenere che lo stipite con diatono sporgente da ambedue le parti sia ciò che rimane di una prima pianificazione avvenuta nel VII secolo, nello stesso periodo cioè di quando i cantieri erano aperti nella media val Trebbia, nella bassa, media ed alta val d’Aveto, in tutta la val di Sturla e in parte della Fontanabuona. Evidentemente, a quei tempi un cantiere era aperto anche qui, nell’alta val Graveglia, al posto dell’attuale Cassagna e a ridosso della località dove sorgerà, di li a poco, la chiesa di San Michele. L’ipotesi rinforzerebbe l’idea che i resti di case antiche con il diatono negli stipiti dei portali, magari anche sporgenti come a Cassagna, siano il segno di ciò che è rimasto dei numerosi villaggi completamente scomparsi che formavano un assieme territoriale che poteva definirsi “pieve rurale”: esattamente come a Zerli, Cogorno, Sopralacroce, Soglio e tanti altri...
Cercando un’altra ipotesi si potrebbe pensare che i lavori per l’edificazione dei villaggi siano stati interrotti per certi motivi intervenuti, interrotti in corso d’opera, ma… è possibile che si sia rimesso mano ai cantieri più di un secolo dopo? Difficile, molto difficile … Mentre la prima ipotesi è facilmente comprensiva di tutti gli esempi, perché il fenomeno potrebbe essersi verificato su di un territorio molto vasto quale ad esempio quello compreso tra i confini amministrativi del comune di Maissana e l’alta val Graveglia, la seconda è valida solo se si fa intervenire la storia particolare del singolo insediamento, non è possibile ipotizzare una miriade di storie locali, come potrebbe essere successo a Cassagna. Per qualche anno infatti non avendo ancora chiara la dinamica della pieve rurale che ripropose nel medioevo l’assetto del pagus precristiano, agli studenti in sopralluogo - perché si ricordassero meglio - raccontavo di un certo monaco bobbiese che chiamavo Bruno per il colore della sua coscienza. Egli sovraintendeva ai lavori di quel piccolo villaggio che, assieme ad alcuni altri, avrebbe dovuto sorgere al posto dell’attuale Cassagna. Questo monaco era stato inviato dall’abate di Bobbio molto tardi, verso la fine del VII o agli inizi dell’VIII, a sostituire un confratello che si era infortunato. Egli portava con sè un segreto che aveva giurato al suo abate di non rivelare: secondo lui anche senza diatoni negli stipiti dei portali qualsiasi costruzione si sarebbe retta in piedi lo stesso. Tra i suoi manovali ce n’era uno chiamato Zola che rendeva la metà degli altri, un vero e proprio fannullone. Un giorno il manesco Bruno diede un ceffone - allora non c’erano i sindacati - al manovale disonesto, dopo aver notato la scarsa perizia con cui aveva eretto un muro. Purtroppo il manovale perse l’equilibrio, cadde battendo la testa e, di li a poco, mori. Quando si rese conto dell’accaduto Bruno venne preso dal panico - non era sua intenzione uccidere il manovale, fu un incidente!- e raccontò agli altri operai che il ‘servo inutile se n’era andato perché era stato rimproverato. Nessuno andò a smuovere il terreno che riempiva una buca da cui era stato rimosso un grande cerro.
Per continuare il racconto mi venne in mente una frase che avevo sentito il giorno prima in una trasmissione su Giuseppe Mazzini e che mi aveva profondamente colpito:”Il primo ateo fu senz'alcun dubbio un uomo che avea celato un delitto agli altri uomini e cercava, negando Dio, liberarsi dell'unico testimonio a cui non poteva celarlo e soffocare il rimorso che lo tormentava.“ Doveri dell'uomo” Capitolo secondo: Dio - Parte prima
E fu così che il bravo monaco suo malgrado divenne assassino e ateo. Gettò la tonaca alle ortiche - è proprio il caso di dirlo – e, visto che la strada non era più quella retta, si diede al tradimento e al mercimonio. Fuggì e attraverso la val di Vara, arrivò a Piazza vicino a Deiva, dove risiedeva quel suo confratello monaco bobbiese che aveva appena ricopiato su di una lapide in marmo bianco la lettera attribuita a Gesù Cristo l’ ”Epistola Domini Nostri”, dove esortava gli uomini a rispettare il riposo nei giorni festivi. Tramite questa conoscenza si fece introdurre alla corte di quelli che diventeranno i marchesi Da Passano, nel Medioevo signori feudali degli odierni abitati di Deiva, Mezzema, Piazza, Moneglia, Framura perché aveva saputo che miravano all’alta val Graveglia. A Cassagna c’è la ‘famosa’ torre dei Da Passano che in realtà è la scala di accesso con ballatoio aggettante ad un più grande palazzo andato in rovina. L’ex monaco Bruno prende accordi con il conte Guido, gli vende il ‘brevetto’ delle innovazioni costruttive in cambio della distruzione di tutto quanto era già stato edificato nella zona di Cassagna - in quanto avrebbero, se rimaste in piedi, svelato il segreto - e parte del guadagno ricavato con le nuove costruzioni ‘truccate’.
Il conte Guido mandò i suoi soldati ad uccidere le maestranze e a distruggere le case già costruite dopodiché costruirono tutta Cassagna anche se – il diavolo fa le pentole ma non i coperchi!- non si accorse che i muratori avevano utilizzato il rudere di una casa che non era stata totalmente abbattuta. Tale rudere “fece la spia”.
In questa ipotesi passa veramente poco tempo dalla nascita del villaggio con i caratteri costruttivi del secolo VII e la riedificazione di un grosso borgo compatto voluto dal potere laico per poter controllare meglio gli abitanti. Il segreto che il monaco Bruno portava con se già al finire del VII o agli inizi dell’VIII, è stata una scorciatoia per arrivare senza disporre dell’esperienza e dell’astuzia del “solito capomastro geniale” a costruire rubando poco alla volta così non se ne accorge nessuno.
Ma questo ragionamento, come abbiamo già detto, è valido – anzi calza proprio a pennello - solo per Cassagna ma non sembra riproponibile per altre località.
La prima ipotesi rimane la più convincente anche se nessuno ci dirà mai qual’ è stata la causa di un abbandono così lungo tale da rendere le prime costruzioni in rovina e proprio in questo senso anche questa spiegazione fa acqua!
A questo punto potremmo avanzare una terza ipotesi che riteniamo più convincente delle altre due: abbiamo detto che i resti di case antiche con il diatono negli stipiti e anche sporgente, come a Cassagna, sono il segno di ciò che resta di tanti villaggi completamente scomparsi, oppure, molto più verosimilmente, l’interruzione di lavori iniziati nel VII-VIII secolo e ripresi successivamente con espedienti costruttivi dapprima inesistenti. Questa sarebbe l’ipotesi più convincente perché le interruzioni in corso d’opera sono sempre state all’ordine del giorno nell’attività edilizia; i motivi possono essere tanti, come l’esaurimento prematuro dei fondi stanziati a causa del rialzo dei prezzi, il fallimento della impresa costruttrice, la concentrazione delle maestranze in nuovi cantieri resisi nel frattempo necessari; nel nostro caso, essendo la val Graveglia periferica rispetto alla direttrice mar Ligure -Bobbio, è possibile che nonostante sia stata prevista una pianificazione sopra tutto il territorio della Maritima in un momento dove si paventava imminente il ritorno dei Bizantini, si sia deciso di ‘rinforzare’ - costruendo ulteriori sbarramenti -, altri territori come quello della valle di Sopralacroce, porta spalancata tra il mare e la Padania. La frazione di Zanoni a Sopralacroce per questo motivo e per quello che si vede ancora oggi è stata ribattezzata da chi scrive: “Zanoni sbarrante”.
Questa valle ci fornisce anche la testimonianza di tre piccoli villaggi tra cui Licciorno, che sorgevano nella sua parte alta di sinistra e i cui resti sono stati impiegati per edificare nuovi muretti di contenimento di strutture terrazzate, “pe incastellâ di seggi” (letteralmente: per incastellare muretti) mi disse una volta Enrico Brignole, detto Richin, di Perlezzi; molto interessante il verbo usato! Anche questi potrebbero essere stati abbandonati –vista la loro collocazione defilata - per potenziare, questa volta di abitanti e non di maestranze, le altre sette frazioni tuttora esistenti.
Se così non fosse perché riprendere con grande cura la muratura preesistente, come se fosse stata coperta da un telo prima di abbandonarla?
La foto 20 mostra una prima fase di tessitura molto ordinata, con uso alternato di pietre grandi e piccole lastre, nella parte bassa adiacente alla soglia e al primo concio dello stipite a sinistra di chi esce; sopra, invece, appare la fase di ripresa totalmente irregolare a partire dal corso soprastante la quota del diatono sporgente.
Nel 2013 proposi delle visite guidate in occasione dell’uscita del mio libro I racconti delle pietre della calce del ferro e del legno nelle zone considerate, volendo dare un titolo che sintetizzasse il tipo di cultura che sottendono i paesi dell’alta val Graveglia, scrissi L’ideale laico dal medioevo ad oggi letto nel costruito di Cassagna in val Graveglia. Per le altre tre aree preferii sottolineare: 1 Le costellazioni e le pievi rurali nella valle di Sopralacroce; ripresa in età cristiana dell’antica organizzazione in pagi e in vici 2 Il monastero della valle di Borzone e la rappresentazione di Gesù risorto nei muri della chiesa 3 Dall’epoca precristiana ai nostri giorni senza medioevo: lettura dei centri rurali della collina di Cogorno.
Quando Marta, la laureanda in ingegneria, mi illustrò le proposte progettuali contenute nella sua tesi che abbracciavano i sostenitori degli “alberghi diffusi” dove si propone ai turisti di “vivere la vita di un borgo e sentirsi come un suo abitante”- anche secondo me molto adatta per Cassagna che ha già tre strutture ricettive – le feci notare che bisognava aggiungere degli “indicatori di lettura” delle qualità e degli aspetti culturali dell’insediamento.
Considerando il ‘medioevo’ non tanto come lasso temporale – è anche difficile perché pare sia durato circa mille anni! - ma come movimento culturale, a Cassagna ci sono i segni di come ad un certo punto, nell’edificazione del paese si siano lasciati alle spalle “i secoli bui”.
Confrontando questi paesi con quelli delle altre zone li troviamo quasi del tutto privi di elementi simbolici perché se ve ne sono, appartengono alle fasi più antiche. L’addobbo delle facciate nei giorni di particolari feste, confermato da Duilio Brignardello, avveniva con drappi appesi su pertiche supportate da mensole di pietra ricurve e non da ferri battuti a forma di testa di volatile chiamate genericamente “cicogne”. L’affascinante aspetto simbolico dei ferri posti di fianco alle finestre – pur mantenendo quello funzionale di stendi drappo – serviva per scongiurare i pericoli portati dall’aria come i contagi, ad esempio. Qui no, a Cassagna e a Nascio, o non si ammalavano mai, oppure non pregavano perché ciò non accadesse.
Non è certo per risparmiare o perché mancava il ferro; abbiamo scoperto che le ‘cicogne’ venivano commissionate ai fabbricanti di armi che in questa zona di certo non mancavano; quindi se non ve ne sono vuol dire che proprio non le volevano, non erano previste dal programma progettuale.
“Marta, sai che qui a Cassagna c’è un’incisione che in pochi tratti riassume tutta la filosofia del Rinascimento? Quando la Silvana avrà finito di stupirci con i suoi piatti usciamo e te la faccio vedere.”
Anzitutto cerchiamo di leggere e descrivere le figure 21 e 22: abbiamo una pietra sostenuta da due stipiti, la sua forma non è convincente perché tutte le sue omologhe presenti a Cassagna sono perfettamente semilunate, questa deve avere subito forzatamente delle manomissioni. Sulla sinistra di chi guarda, al centro della spaccatura campeggia un numero, verosimilmente una data corrispondente al 1564 mentre sulla destra si vede inciso un simbolo religioso. Il tutto sembra incorniciato da un segno che disegna un rettangolo, ma se si osserva bene soltanto la data rimane incorniciata mentre l’altro lato verticale del poligono non incornicia il simbolo religioso bensì gli si va a sovrapporre utilizzando tutto il braccio verticale della croce e il suo prolungamento, il quale però appare leggermente inclinato verso sinistra a raggiungere il lato di base. L’inclinazione è voluta- non la si può giustificare dicendo che gli è scivolato lo scalpello!- per porre in risalto la sovrapposizione della data di quell’anno 1564, all’iscrizione sacra.
Ci sono tre elementi che ci hanno fatto capire quello che è successo proprio nel 1564, in piena cultura rinascimentale: la sagomatura dell’estradosso della piattabanda, il trigramma inciso che appare alla estrema destra e la ‘supremazia’ della data su tutto il resto. Ne possiamo aggiungere un quarto se consideriamo la parte di muro diroccato che è sulla sinistra guardando e alla base (fig. 23)
Fig. 23, 24 e 25
Il muro a valle è crollato ma non completamente: ha lasciato come traccia del tragico evento le sue parti superstiti di cui alla figura 23 che denotano un andamento inclinato a scarpa. Nella sua ricostruzione non è stato adottato questo provvedimento - tanto è crollato lo stesso! – e la boria dei ricostruttori ne ha elevato un altro a piombo. Ma se era necessario questo provvedimento perché il terreno da sempre è ‘in movimento’, perché ignorarlo?
Nella nuova muratura si risistemano le pietre del portale ma, mentre nello stipite di destra per chi esce si arriva ad una soluzione eccellente, (fig. 24) in quello opposto le cose vanno meno bene (fig. 25). Evidentemente il primo concio non apparteneva ad uno stipite ma, per la sua forma, era il pilastro centrale di un portale gemino.
Veniamo alla piattabanda (fig. 21): appare evidente che era lunga quasi il doppio perché nessuno si sarebbe mai sognato, in un’ epoca antecedente, di porre un simbolo religioso in disparte; esso era indubbiamente al centro e questo ci fornisce le dimensioni originarie della pietra e ci conferma che sotto c’erano due aperture affiancate, verosimilmente due portali gemini che servivano un magazzino.
Infine cerchiamo di capire la complessità dell’iscrizione. Il cristogramma rappresenta il Dio cristiano del medioevo non negato ma messo da parte. Se si voleva eliminare pur riutilizzando il pietrone frantumato si poteva capovolgere nascondendolo. La ricostruzione meno saggia (muro verticale) nega il passato in nome di una certezza presuntuosa, la presunzione di essere autosufficienti perché finalmente liberati dal senso religioso che viene annientato con la sovrapposizione del rettangolo che permette di leggere quello che c’era scritto, ma nello stesso tempo lascia prevalere il camuffamento e la derisione.
Trovo su dei fogli dattiloscritti degli appunti risalenti al 1965: “l’ideale dell’umanista è l’uomo che agisce, è l’uomo che lavora, è l’uomo che esprime sé, che afferma sé, non il Dio ma il ‘divo’ è l’ideale della nuova intellighenzia, del nuovo clima culturale, e questo uomo che in qualunque modo deve cercare di affermarsi, in un campo o in un altro, è l’affermazione di sé, questa è la grande regola per cui la Fama o la Fortuna sono i nuovi dei dell’umanismo”.
Hai capito Marta? Complimenti per la tesi!
Figura 26
TRA STORIA E LEGGENDA: LE FOCACCE DI SAN ROCCO DI ZERLI (di Massimiliano Cassinelli, Ottobre 2018)
La preparazione delle “Focacce di San Rocco”, di tradizione ultra secolare, si rinnova ogni anno in occasione della festa in onore del Santo, presso l’Oratorio che sorge sopra la collina di Zerli, in Valgraveglia.
Il giorno della festa è fissato tradizionalmente per la Domenica successiva al 15 Agosto, festa di N.S. Assunta, e la preparazione delle Focacce avviene il Giovedì, quando i membri della Confraternita insieme ai parrocchiani si riuniscono per iniziare i preparativi.
La “Focaccia di San Rocco” ricorda il pane simbolo del Santo che, curando gli appestati, si ammalò a sua volta e, riparato in una grotta, venne sfamato dal suo cane il quale, ogni giorno, provvedeva a procurasi una pagnotta dalle abitazioni circostanti.
La preparazione avviene in un antico locale adiacente all’Oratorio, chiamato appunto locale “delle Focacce”, ove si trova un forno a legna che ne permette la cottura.
La pasta, composta unicamente di farina e acqua, non lievitata, viene pressata in un antico stampo ligneo, il quale riporta in fronte l’immagine di San Rocco e sul retro la croce dei Cavalieri di Malta.
La leggenda narra, infatti, che un Cavaliere dell’Ordine, passando per queste terre, non riuscisse più a proseguire il cammino a causa del suo cavallo che, a terra, non voleva saperne di rialzarsi.
Chiamando in soccorso tutti i santi, in ultimo invocò San Rocco e il cavallo ripartì. In segno di ringraziamento, il Cavaliere fece costruire l’Oratorio di San Rocco che lo aveva aiutato.
Le “Focacce di San Rocco”, benedette il giorno prima della festa, vengono distribuite ai fedeli in cambio di una piccola offerta a sostentamento dell’Oratorio.